mercoledì 23 maggio 2012

la stronza dell'appartamento 23

Vi prego datemi più “Don’t Trust the Bitch in Apartment 23”. Ancora e ancora. La serie, solo alle primissime puntate, sulla ABC America, è conturbante e confusissima. Racconta di una ragazza arrivata a New York per un nuovo lavoro. Il giorno stesso, la sua azienda chiude e lei, il cui nome è June (Dreama Walker), trova da vivere presso Chloe (Krysten Ritter), una bellissima morettina che sembra tanto dolce. Ma è la stronza dell’appartamento 23, e June ci metterà poco a capirlo. E anche, a sorpresa, a diventare sua amica. Le due infatti raggiungono un equilibrio, in cui June è la giovane buona, efficiente, materna e onesta, e Chloe la bellissima stronza, che per vivere fa certamente la prostituta. Con loro un ricco cast di comprimari, tra i quali emerge James Van Der Beek, che interpreta se stesso, ovvero l’attore protagonista di “Dawson Creek” che cerca di farsi una nuova carriera e che non si fa problemi a sfruttare il suo passato, soprattutto per sedurre le fans. Ci sono anche Mark, ovvero Eric Andre, il capo di June al fast food, e Robin (Liza Lapira), la vicina ossessionata da Chloe.
La serie tv è fresca e cinica al tempo stesso, ripropone standard abbastanza rassicuranti in una nuova chiave di lettura, e ha due donne per protagoniste; una di queste è davvero stronza, meschina, senza morale. La perdoniamo solo perché la vediamo attraverso gli occhi angelici di June, e ci sembra simpatica, e perché i casini che combina (aka prendere in affido una trovatella perché le faccia da segretaria, previo poi restituirla perché non era abbastanza brava) sono talmente assurdi che non si può che ridere. Chloe è manipolatrice, bugiarda, sessuomane, alcolista, invadente, egocentrica, narcisista, ladra e bizzarra. In una puntata, fa di tutto per mettere June con un bellissimo giovane (Scott, interpretato da Michael Landes, da sbavarci, ragazze!) che alla fine scopriamo di essere nient’altro che il padre di Chloe, che sta ancora con la madre di lei che per giunta è sulla sedia a rotelle! Chloe neanche sa il perché dell’handicap, non glie lo ha mai chiesto, e la odia, perché quando era bambina (e la mamma era già immobilizzata) lei non la portava a pattinare. Le scene con James Van Der Beek vanno viste TUTTE. E non aggiungo altro: ogni singolo fotogramma con lui presente fa morire dal ridere, soprattutto quando.. BALLA.

martedì 22 maggio 2012

Aspettate che arriva Chtulu

Credevate di andare a vedere un horror, e invece era un film filosofico. Filosofia spicciola, ma sempre filosofico. Sto parlando di “Quella casa nel bosco” di Drew Goddard sceneggiato da Joss Whedon (sì, sempre quello di “Buffy l’ammazzavampiri” e di “The Avengers”). Siete andati al cinema per vedere dei mostri, demoni, fantasmi, zombie, maniaci, fare il culo ai soliti cinque adolescenti. Quelle cose classiche dei film, come in “La Casa” o “Non Aprite quella Porta”, si sa che ragazzi che partono per gita fuori porta significa morte sicura. I ragazzi all’inizio erano simpatici. Diversi da quelli soliti dei film horror, così stereotipati. Oddio, poi se vuoi star lì a cercare, anche loro, seppur così carini, con le loro battute davvero divertenti e il loro spirito di corpo (Whedon resta un maestro nel far parlare gli adolescenti) i soliti stereotipi (un horror non può esistere senza stereotipi, in primis tra i personaggi): figo muscoloso biondo, tipo con gli occhiali più intellettuale, fighetta bionda, ragazza è più riservata e studiosa e tipo strano riesci a individuarli anche qui. E mentre il film procede, inizi già a pensare – io lo faccio sempre – chi sarà il primo a morire. (Risposta all’unisono: la bionda). Il film però è intercalato da un gruppo di scienziati che sperimenta un evento e studia le mosse dei nostri cinque. Sono in competizione con il Giappone e in contatto con il benzinaio spaventevole con cui i ragazzi hanno a che fare raggiungendo la casa nel bosco. A breve capiamo. Gli scienziati stanno organizzando uno spettacolo horror (i competizione con il Giappone) per calmare qualcuno. E lì pensate: siamo noi, quel qualcuno? Si tratta di una riflessione metacinematografica, in cui gli scienziati rappresentano (non senza sarcasmo da parte di Whedon) tutta la troupe, che mette in scena la trappola alle vittime previste e ha un armadio pieno di mostri d’ogni tipo (e che citano di tutto, dai pipistrelli giganti a “Hellraiser”, da “The Strangers” a "It" ai “Critters”) la cui sfilata sullo schermo ricorda molto la scena madre di “13 spettri”. Tutto questo solo per intrattenerci, mentre scommettiamo su come andrà a finire? Beh alla fine non va a concludersi come gli scienziati volevano e gli Antichi (i mostri per rabbonire i quali va fatto il sacrificio. Un nome un po’ lovecraftiano, no?) non sono soddisfatti. Quindi, i film non fa paura. Buona parte degli effetti speciali è quasi ridicola. Le citazioni a “La Casa” sono in ogni angolo. Il film va un po’ a merda e non ha una vera trama. I personaggi sono simpaticissimi e ci si affeziona davvero a tutti (anche a figo e figa prima che, per via dell’esperimento, diventino i tipici figo e figa di tutti i film di mostri americani). Bella anche l’idea di far sopravvivere due del gruppo, e i due non sono né sono mai stati una coppia. Da vedere perché è un saggio, anche se incompleto, sulle pratiche dell’ horror, sui suoi meccanismi, sui suoi motivi. Purtroppo ondivago, ma è il primo film horror senza horror che io abbia mai visto.

lunedì 14 maggio 2012

“Another Earth” è un capolavoro. Ma da assumersi con moderazione, perché terminata la visione vi sentirete sopraffatti e sconfitti. Il film è talmente pervaso da un senso di determinazione, dal messaggio che tanto è inutile opporsi al proprio destino, che neanche la scena finale, che sta ad indicare che nell’altro mondo forse le cose possono essere andate meglio, riabilita il messaggio. La protagonista è Rhoda (un’intensissima Brit Marling), promettente studentessa che sta per entrare al MIT. La sera della sua festa di ammissione all’università, si scopre l’altra terra. Ovvero, un pianeta identico al nostro, che si sta avvicinando a noi. Mentre guarda in cielo, si schianta contro un’auto ferma a un semaforo, uccidendo madre e figlio a bordo. La sua vita è distrutta. Finirà in carcere e, una volta uscita, il promettente genio farà le pulizie nella sua ex scuola. Ma un giorno, decide di cercare il padre, John (William Mapother). Tra i due si crea un rapporto fatto di silenzi e di musica. Entrambi hanno la vita distrutta da quell’episodio di cui non parlano mai. Entrambi hanno sprecato il loro talento (lui era un professore e un musicista), entrambi sono diventati white scum, entrambi non parlano, entrambi sono ossessionati dall’altra terra, dove si scopre vivono alter ego, o doppleganger , di ogni persona sulla Terra. Quindi, lassù, forse, il loro alter ego ha avuto una vita migliore, è quel che entrambi pensano, ma non dicono mai. Rhoda fa un concorso, riesce a vincere: sarà la prima persona a visitare l’altra terra. Va a comunicare la novità a John. Viene scoperta: è lei l’assassina. John l’abbandona. Lei alla fine gli cede il proprio posto, in un finale atto di autopunizione. Sarà lui a partire, perché lassù, forse, sua moglie e suo figlio non sono morti. La vita della ragazza riprende come sempre, sino al colpo di scena finale.
Il film di Mike Cahill è intenso e poco parlato. Si gioca sulle tensioni e le angosce che i personaggi (anche secondari, su tutti, maestoso l’inserviente muto) portano dentro., Bisogna capirlo, capire perché Rhoda cerca John, perché lui l’accetta, perché si innamorano (senza dirlo mai, né fare alcunché di romantico), perché hanno deciso di sacrificare le loro vite e perché l’amore dà loro la spinta per forse fare qualcosina (per Rhoda una minima cosa) per riprendere in mano se stessi. Perché Rhoda grazie all’amore decide di andarsene dalla Terra, abbandonando il suo uomo che proprio questa forza le ha dato. Perché lui la lascia andare o, meglio, se ne va, scegliendo l’altra vita, quella precedente a lei. Un film che potrebbe essere di fantascienza (“Solaris”) o rieccheggiare “Malincholia” diventa una pellicola di espiazione, e poi cambia ancora: il suo tema è il doppio. John è il doppio di Rhoda, che incontrerà poi il suo vero doppio (che evidentemente ha vinto sull’altra terra lo stesso concorso fatto da lei, e non ha ceduto il biglietto a John, perché su altra terra John è felicemente sposato). Come sarebbe il vostro, su Terra2? Perfetti gli interpreti, comunicano a sguardi, ad atteggiamenti. La regia è gelida, documentaristica. La fotografia fredda, grigia, scarna, squallida. Il film è maestoso, e fa piangere incessantemente. Si osservano queste due persone mandare a quel paese la loro esistenza, e si soffre con loro e per loro, perché non c’è, non ci potrà mai essere una via d’uscita. Per loro, ma forse anche per noi.

sabato 12 maggio 2012

improvvisamente

ve lo ricordate da ragazzetti, quando ci si sentiva sballottati e d'improvviso arrivava un gran mal di testa, un senso di distaccamento dalle cose, voglia di scopare, fame? ecco. a quarant'anni non si dovrebbe stare così, but today i'm happy, ancbe se non sarò mai marina pierri.

venerdì 11 maggio 2012

io, casalinga disperata

Domenica andrà in onda negli Stati Uniti l’ultima puntata di “Desperate Housewives” che per otto anni ed altrettante stagioni ci ha fatto compagnia, creando addirittura uno stile nella serialità televisiva e diventando parte del pensiero unico. Marc Cherry, che ha creato la serie, l’ha lasciata con la settima perché vuole dedicarsi ad altro e la vicenda delle casalinghe americane è arrivata alla conclusione. Tutti guardano o hanno guardato almeno una volta la storia delle cinque donne (a Bree, Susan, Gabrielle e Lynette si aggiunge Edie Britt, non una casalinga, perché ha un lavoro, ma tant’è) di Wisteria Lane. Persino Laura Bush, che in un’occasione definì casalinga disperata se stesa e Lynne Cheney. La storia è un mystery, velato di soap, con improvvisi momenti di satira sociale. Soprattutto, è un modo per descrivere la vita dell’elegante suburbia americana, dove vivono i ricchi, per lo più bianchi, per lo più etero, con i loro segreti e le loro morbosità. Il quartiere fatto come tante scatole, ciascuna con il suo segreto. Idea ampliata ed approfondita dalla serie “Weeds”, dove la malattia che regna sotto la lucida superficie del suburbia è ancor più visibile. La metafora delle scatole e della normalizzazione fasulla del quartiere suburbano in “Weeds” era esplicitata, a partire dalla sigla, “Little Boxes” di Malvina Reynolds (rifatta poi da un musicista differente per ogni puntata), con le sue casette tutte uguali, le persone tutte uguali, i lavori tutti uguali. Queste donne si vogliono bene e si supportano, sono buffe, a volte goffe, altre meschine. Sono estremamente caratterizzate e ciascuna è un tipo ben definito di casalinga. Per questo ciascuna rappresenta un pezzo di noi. La serie ha vinto due Golden Globes nel 2005 (uno è andato a Teri Hatcher, che è Susan, l’altro come miglior serie), un Emmy nel 2005, andato a Felicity Huffman (Lynette ) e - nel 2006 - un Golden Globe come miglior serie. Quando la ABC la mandò in onda per la prima volta nel 2004, fu un immediato successo. Le quattro casalinghe intente a scoprire chi ha ucciso la loro amica (e voce narrante)Mary Alice ci portarono a capire che i segreti a Wisteria Lane erano davvero tanti. Una sorta di Twin Peaks senza mostri. Ciascuna serie ha avuto al centro un personaggio e il suo mistero. Dopo Mary Alice, Betty- e suo figlio matto, Caleb – poi Orson e il suo passato (la moglie non morta), Katherine (e sua figlia finta), Dave (che deve vendicarsi di Mike), Angie (che uccide Patrick), Paul (anche lui con una storia di vendetta), e, nel gran finale, Carlos e le casalinghe, che hanno nascosto il cadavere del patrigno di Gabrielle.
“Desperate Housewives”, indirizzata per lo più a un pubblico femminile, univa non solo commedia, drama e soap, ma anche giallo e satira, e in questo fu rivoluzionario. Le casalinghe disperate sono diventate un fenomeno culturale. Altra scelta innovativa, dalla terza stagione, è stata di far morire uno dei personaggi chiave, come ha insegnato la serie “Oz”. Muoiono Carolyn, Ida, Paul, Mike. Inoltre, Orson resta paralizzato. Uno stillicidio. Quante coppie sono scoppiate in questi anni, anche se alla fine Gabrielle resta con Carlos, Susan con Mike – sinché non muore, Bree con Orson – più o meno - e Lynette con Tom; quanta gente è morta ammazzata (nell’ultima serie, Alejandro e Mike) , quanti ricatti (a Bree, recentemente), quanti crolli finanziari (si sono impoverite prima Gabrielle, poi Susan),e quante problemi da affrontare, come l’alcolismo di Bree, o la storia del giovane omosessuale Andrew che decide di diventare etero, più figli (più o meno adottivi), misteri, drammi e risate. In Italia l’ultima serie sarà su Fox Life dal 30 novembre. Si vedrà il rapporto tra le quattro logorarsi, visto che, per la prima volta, il segreto al centro della serie è condiviso da tutte e quattro le protagoniste. Arriveranno nuovi vicini (tra cui Ben Faulkner, interpretato da Charles Mesure), il problema di Bree, il lutto di Susan, Lynette abbandonata e forse ripresa… più le storie quotidiane che ben conosciamo. La serie finisce, con un record di ascolti, e non resta che vedere quale eredità lascerà nella storia delle serie televisive.