lunedì 16 luglio 2012

Trovare implica che sto cercando

Chi è in coppia di norma non si accorge di quanto sta male. Certe idiosincrasie, certe sofferenze, passano del tutto inosservate, come se il prezzo da pagare per poter dividere i costi delle bollette fosse una ragione necessaria e sufficiente a sopportare le peggio cose. Di recente mi confronto con un amico, la cui fidanzata di dieci anni più grande, insomma, una donna più che fatta, lo ha piantato perché era infelice per via del lavoro, per poi riprenderselo una manciata di giorni dopo. Per me, una donna di questo genere dimostra totale indifferenza nei confronti del suo compagno. Non gli risparmia una sofferenza piantandolo per capriccio, senza ragionare e senza dare la necessaria importanza a una scelta che necessariamente farà soffrire la persona che ella dice di amare. Io non lascerei mai per due o tre giorni il fidanzato solo perché così mi è girato il culo. Non tradirei la fiducia e le speranza della persona che dico di amare per capriccio o per paura o per noia, né tantomeno tornerei a riprendermela come se nulla fosse tre giorni dopo. E’ già dura far capire al mio amico che una persona che ci fa questo non ci rispetta. Accusare di non rispetto il fidanzato o la fidanzata è già cosa che in società non si fa, come se a una, per il fatto che ci prepara la cena ogni sera, fosse consesso fare il bello e il cattivo tempo come se nulla fosse. Siamo sempre implacabili con il nostro partner, previo però concedergli mille scuse e alibi quando ci fa davvero male. Soprattutto se lo fa per capriccio. Dopo che l’ho convinto della mia opinione, ci guardiamo e mi dice: che faccio? Come che fai? Se sei saggio lasci la persona. Che te ne fai mai di una compagna che non si preoccupa di te? Lui dice che il rapporto di coppia è bello quando c’è complicità - condivisione - comprensione e stima. Io dico che quindi mai Lui dice che faccio la disillusa perché non ho trovato ciò che cerco ed è qui che si finisce nel cul de sac in cui finisco sempre quando faccio di questi discorsi e nonostante ciò, idiota!, li faccio sempre. Il fatto che io preferisca non innamorarmi non è compreso da qualsivoglia interlocutore. Anche a me, sono umana, capita l’innamoramento con conseguente rincoglionimento che porta ad accettare qualsiasi cosa. Aka qualsiasi sopruso. Perdere il controllo della tua vita del tuo tempo delle tue abitudini ed aprire la porta a centinaia di problemi. No, non è vero che in due si hanno meno problemi. Se ne hanno sfacciatamente di più, perché la coppia, in mancanza di altro, se li crea. Io, stando da sola, devo pensare ad arrivare a fine mese, a fare il modello Unico, cucinare e lavare, occuparmi della salute schifosina e della paura del futuro. Tutte cose che in coppia dovrei affrontare lo stesso, che che un fidanzato non me li renderebbe più leggeri, perché diciamocelo alla fine ognuno i suoi problemi se li deve risolvere da sé. Parlarne con il fidanzato (e guarda, garantisco che parlarne con l’amica sortisce lo stesso effetto, non è che un fidanzato lava più bianco: è uguale) non è meglio. Non è illuminante e non è risolutivo. In più, fidanzata, avrei da sorbettarmi anche i problemi della controparte, anzi, dovrei ascoltarli, perché come si diceva ognuno i problemi se li risolve da sé e io non sarei diversa, mica ho scritto Madre Teresa in fronte, però dovrei ascoltarlo. BLABLABLA. E poi, colpo di grazia, avrei i problemi che lui direttamente e indirettamente mi crea. Che so. Lui ha mal di pancia e scogliona perché ha mal di plancia, invece che eroicamente, come faceva da single, mettersi in un angolo e soffrire in silenzio. Dico io, se da solo te lo ciucciavi eroicamente, il mal di pancia, perché ora che stai con me sei una capra belante? Oppure, lui è convinto che io non lo ami più e mi sfava perché si è fissato che non lo amo più, dubbio ragionevole, visto quanto mi stai rompendo i coglioni per una cosa inesistente. O ancora, lui vuole che domenica andiamo a pranzo da mammetta sua e io voglio dormire. Sono posta di fronte a una discussione e a una alternativa che, se lui non esistesse, non esisterebbe similmente. Inoltre, amico caro, la frase “non hai trovato l’amore” è offensiva perché presuppone io lo stia cercando. Invece – ta daaan – sorpresa. Non puoi trovare una cosa che non cerchi. E non cerchi una cosa che non ti interessa. L’amico dice: si sta meglio quando si sta bene e peggio quando si sta male e sento i miei coglioni staccarsi e rimbalzare per la stanza. Non potremo mai vincere contro chi pensa che da soli non si può stare bene mai e in coppia si può star bene spesso. Al di là che in coppia non si sta bene quasi mai. E io ce l’avrò anche avuto l’amore perfetto, ma essendosene lui andato ed essendo padre di un figlio che non è mio, deduco che la cosa non era ricambiata e quindi non valeva. Da soli si sta bene. Se sei serena e tranquilla, divertente e interessante, lo sei che tu abbia o non abbia una palla al piede. Se io sono rilassata e felice e divertente e dinamica lo sono anche senza uno scorreggione nel letto. Anzi, oserei dire che lo sono di più. Se sono infelice musona depressa e impaurita, non è che con una palla al piede non lo sono più. Lo sarò ancora e in più rovinerò la festa alla suddetta palla. Non comprendo come voi umani non possiate capirlo. Lo ripeto, non sono contro il rapporto di coppia a 360 gradi. Dico solo che per me è destabilizzante. Che finisce sempre male. Che alla fine ti scontri sempre con l’egoismo dell’altro. Che invece di stare sereno hai sempre paura. E che quindi insomma non ne vale la candela e stare sola (che non significa senza amici. A volte ho il dubbio che voi vi dobbiate fidanzare e sposare perché avete perso tutti gli amici e, mancando chi sceglie di stare con voi, risolvete di pagare qualcun o perché lo faccia) e decidere da me quando mi alzo che mangio dove vado e con chi. Io menate in prima persona su quanto la persona che ho accanto mi fa soffrire, mi tradisce, mi ignora, non mi soddisfa, blablabla non ne ho e non obbligo nessuno a sorbirsele. E voi, che non fate altro che piagnucolare e piagarmi con le vostre sciocchezze (che non avreste se foste soli) avete intenzione di continuare ancora a lungo a sostenere di stare meglio di me??

venerdì 13 luglio 2012

odiando i milanesi finticolti e guardando il sosia di carmelo bene

Ho smesso di ridere della gente che fa le pernacchie quando andavo nei mezzani alla scuola materna. Per questo non solo mi sfugge il significato, ma mi irrita, pure, quando tutto il teatro Parenti si spetascia per almeno cinque minuti nel vedere una tizia in abiti farsescamente seicenteschi che simula un attacco di scoregge. Non pensavo che recarmi a vedere “Amleto. Il popolo non ha il pane? Diamogli le brioche.” di e con Filippo Timi sarebbe equivalso a visionare uno spettacolo di Bombolo. E tra l’altro regista e attori sembrano saperlo bene, che ci stanno propinando Bombolo, e ridono di noi. Perché alla fine miei cari milanesi bene che a luglio andate al Parenti – badate bene non a teatro, a un teatro piccino come il Leonardo o il Teatro I o L’Officina, ma IL PARENTI, tutto stampato con le lettere cicciotte, come L’ELFO PUCCINI o IL PICCOLO, per dire – voi volete le scoregge di Bombolo. E ridete a crepapelle quando Timi dice BANANA (anche qui, lette tutte alte). Vi fa scompisciare che lo stesso sketch sia ripetuto alla nausea, come quando Luca Pignagnoli dal proscenio chiama Timi. “Principe!”, fa. Ma Amleto non vuole parlargli e dice di star dormendo. Questi si ostina “Principe!”, fa. E Timi fa una faccia, come a dire, “non sono io”. Ed è buffo, e naturale. Si ride. Ma la scena fa rewind per circa quindici volte. Per quindici, venti volte “Principe!” e faccia distaccata di Timi. Quindici, venti volte. E voi ridete a crepapelle. Ma signori, sono cose che fan ridere i bambini duenni quando fate loro le facce nascondendovi dietro le mani. Perché “Amleto” non è brutto. Costumi e scenografia sono spettacolari, opulenti, non ci si stanca di guardarli. La prima scena di Timi è un quadro fiammingo, con lui – identico a Carmelo Bene - sul trono vestito da matrona, una versione infiocchettata e nera dell’abito di regina Elisabetta I con una donna a seno nudo riversa in grembo, che sembra così piccina e fragile e un uomo, come nelle stampe di fauni, a profilargli la seduta. “Amleto” lavora per lo più di dissociazione. Come nella tragedia originale (ma quanti di voi, milanesi ridanciani, l’ha colto? Quanti, piuttosto, hanno mai letto “Amleto”?) i richiami metateatrali sono numerosi, ancor di più si rincorrono e Timi non smette mai di ricordare che lui è Timi (balbetta anche un pezzo di monologo) e che è un quarantenne cresciuto a Puffi e Intillimani. Ci porta Vicky il robot, i puffi, Pinocchio (che parla fiorentino), le palle strobo da discoteca, “Dirty Dancing” (“nessuno mette BAMBI in un angolo”) e gli Intillimani. Gli attori sono magnetici. Timi non solo è sexy e bellissimo, ma anche le attrici, in particolare Mascino e Rocco sono magnetiche e riescono anche a rubargli la scena. Cosa che lui si lascia fare, e se ne scompiscia e improvvisa. Ma poi una battuta riesce e allora la si ripete sino al parossismo, senza però arrivare all’obiettivo di svuotarla di senso , perché il pubblico invece sghignazza e continua ad apprezzare, e ne vuole sempre più; intanto la tecnica diventa talmente prevedibile da irritare. Che quando Geltrude dirà ad Amleto di andarsene gli farà quella faccia lì, che le viene così bene che.. perché non rifarla? Perché non farla di nuovo? Perché non farla ancora..? E voi, milanesi, a sghignazzare. Voi non distinguete le parti inventate di sana pianta da quelle della tragedia vera, quando Amleto insulta Ofelia o parla dei maiali che scopano e del culo di Geltrude, fate “oooh” scandalizzati senza sapere che queste sono cose di Shakespeare. Quando Amleto dice che “la vita è una canzonetta stupida” non riconoscete la trasposizione. Quando dice ”ecco il monologo di Ofelia, di nuovo!”, voi non capite. Forse neanche la battuta “Adesso ammazza Polonio dietro l’arazzo” vi è chiara. Poi ci sono siparietti che non c’entrano, che vogliono caricarsi di simbolismo ma che sembrano solo piantati per dare alle due attrici più brave la possibilità di un solo che nulla c’entra. Con Marina Rocco che rifà forse la Monroe e parla delle difficoltà di trovare parcheggio e Lucia Mascino praticamente nuda che dice che volveva fare la scienziata. Bravissime, carismatiche, ma quindi? E ancor più assurdo è, infine, quando il registro farsesco viene abbandonato e quella favola raccontata da un idiota che è lo spettacolo diventa seria. Succede due volte. La prima è all’inizio, a sipario giù, mentre Timi fa uno scombinato monologo sull’odio che mangia se stesso e bla bla bla, la seconda volta, molto stridente visto che prima e dopo gli attori erano farsescamente in delirio, è quando Ofelia, che tra l’altro non è manco interpretata da ‘sta grande attrice, fa un monologo sfiancante sulla morte per acqua, sul peso dell’acqua, su mascelle spappolate e ossa schiantate e se l’acqua fosse amore, ahimé, muoio. “E muori”. Io per tutto il tempo speravo che Amleto, che, dopo averla sfottuta per un’ora, la sorreggeva adesso tra le braccia, le assestasse un calcio bello dritto e la buttasse giù dal palchetto. Parlar troppo – è noto – è un fronzolo esteriore.

domenica 1 luglio 2012

parigi, l'incomprensibile

Stare seduta su una lapide a pere lanchese cortesemente messami a disposizione dalla famiglia pisson per ripararmi dalla pioggia fastidiosa ma anche questo è uno scarso riparo perché la pioggia mi ha sorpresa in sandali e senza ombrello. Ieri sera sulla 14 un uomo leggeva sartre e matrone cariche di borse delle galleries lafayette mi spintonavano di malagrazia. quello che pare l'hobby dei francesi: ho litigato con uno al museo carnevalet perché mi si è attaccato come un frotteurista e si è offeso quando l'ho guardato male, perché io non merito nulla, perché di fronte a un quadro di atget stavo prendendo appunti sul cellulare, ergo per lui stavo mandando sms in un sacro luogo di cultura. francesi! Ho sempre addosso il minuscolo coprispalle bianco, perché fa freddo, anche se la notte mi sveglio con il coppino sudato. Parigi resta sporca e disordinata, con odori di aglio e spezie che richiamano a cibi che non posso ritrovare. Alle dieci di sera è ancora chiaro e allora compro gli ultimi macarones del carrefour, avendo voglia di una pietanza che neanche so quale sia. io che ho voglia di cose che non so quale siano. è così da molto tempo. Mi ha sorpassato un ragazzo che camminava leggendo il bel ami e sulla 2 c'era un negro con i rasta ossigenati. Le massaie trascinano borse con le rotelle, le trovi anche agli angoli di strada, legate con le catene. le borse, non le massaie, le borse. al mercato di belleville te le sbattono sulle caviglie e i polpacci e pure il culo. le borse, non le massaie. Il cielo è sempre plumbeo. I parchi ariosi. Le viette puzzolenti. I muri imbrattati. Le pareti come troncate a metà. I gatti sono spigolosi e diffidenti e ovunque si sentono pigolare uccelli. Il mio letto è corto e duro e la finestra dà su una pizzeria. Mi sento molto, troppo lontana da me. Mi arrabbio con questi francesi maleducati, che ti spingono ti sgambettano ti spostano hanno bambini urlanti e indisciplinati e bici e monopattini che sfrecciano rasenti il mio corpo. questi francesi vestiti stravaganti come per andare in scena nella grande recita che è parigi. Non chiedono permesso nè scusa e ti spostano di peso, affannandosi a correre verso la porta della metro. Manifesti che innaggiano all'essere ipergay, ebrei che vogliono giocare soli con luca, passages che sono solo pianerottololi aperti, la scoperta del chai tea latte e il più sontuoso starbucks al mondo, le salse kosher e il mercato delle pulci più triste del mondo. imparare la parola fattoria, analizzare lo sguardo del cavallo di giovanna d'arco (più intelligente di quello della padrona) spaurirsi nelle vie troppo affollate e adorare quelle deserte. Lo specchio con i baffi. Il film porno DXK, i burro insolenti. Barracuda. I vestiti da sposa accanto a vestiti da sposa accanto a vestiti da sposa in stile bomboniera. 5.500 euro per un elefante fatto di giocattoli di plastica. La gente buttata sotto un cartone a republique, con i figli disidratati e attoniti con occhi enormi. Il clochard con la barba insanguinata. Il pupazzetto di max ernst e il quartiere dell'orologio, dove l'omino di latta combatte il drago e tutti e due mi fanno paura. Il sidro e lo champagne, e i macaron venduti al mc donald. I big jim nudi usati come ornamento, i clacson, i clacson, sempre i clacson. e il tizio che canta la lirica sotto la mia finestra. Cibo rancido in vetrina, asfalto rotto, bici e motorini che non rispettano il semaforo e ti tagliano la strada mentre attraversi. gente che la mattina passeggia fumando una canna, in un caso portando a spasso il pupo nel passeggino. Uomini appesi ad aspettare cosa agli angoli delle porte - negozi di serrature cacche odore di burro e aglio e erbe aromatiche. Anfratti. Senza tetto che tengono accanto al sacco a pelo vasi di gerani. Le ricercatissime foto in cui cambia l'immagine ritratta se le muovi e ancora le borse con le rotelle. Pezzi di bicicletta. Asfalto lurido di cose che non immagini. La tipa dietro di me ha appena scatarrato a un palmo dalla mia schiena. Calcinacci. Negri vesititi con completi giacca pantaloni in colori sgargianti, spesso nocciola, a righe. Negri con le tuniche da negri. Donne di tutti i colori con i nastri in testa. collant. scarpe invernali senza calze. La grisette. Un croque madame. Il kebabbaro "le zorba". La gente che ti sorpassa a destra, ma prima ti si appiccica, e la senti che ti respira tra i capelli. Lo strano destino del sacchetto di baguette che giace per terra, il pane umido ritorto come stronzi. Una canzone alla radio che sembrano i pulp. Scoprirsi a pensare sempre in inglese. Urla al mercato di belleville: fichi neri, lunghi cetrioli, pesche bianche, albicocche minuscole e pomodori gialli. Tutti che urlano e spingono e nella calca si trascinano le loro gigantesche borse a rotelle, che sono l'equivalente del trolley a milano. Spingono e urlano e in mezzo due vecchi tunisini in tunica con delle borse di plastica in mano, dicono "de burse, de burse" e sembrano desolati e poveri e rassegnati e desertificati. Odore acre di piscio alla brasserie dove pranzo. Gran copia di gente con le stampelle. Il cuoco che viene a dare la mano ai miei vicini di tavolo e cancella un piatto del giorno dalla lavagna: ora il filet de lieu non ha più contorno. Va molto l'orientale tatuato che scodinzola camminando e l'abbigliamento militare, per donna e per negro. Va molto il monopattino con cui scagliarsi nelle caviglie dei passanti. Va molto la giacca di lana. va molto il bambino urlante, l'espadrilas, il galaxy della sansung. Perdersi. strade deserte, lucchetti, nuvole veloci, acqua lenta nel canale, una casa di cartone, una serie di archi, una via solo di ristoranti giapponesi. vivere in un passage, senza la luce del sole e senza pioggia. pupazzi, calamite, mandorle, fiori, panchine inutilizzabili perché assediate dai barboni. Guardare una mappa girandola attorno. Ritrovarsi. Pensare che poi non importa. Nessun poliziotto, nè gatto, o cane. Pochissimi bambini. Gran numero di coppole e di orologi. Culi. Rughe. Ginocchia nude. Kippah. Espadrillas a ciabatta, senso di boh.