martedì 21 agosto 2012

L'orrore di certe coppie

Non è che queste tre coppie con cui sto seduta mi facciano orrore prettamente perché sono così cliche, con i loro ruoli falsi sotto l'ascella come libri di matematica il giorno dell'esame di terza media, con lui che dice a lei: Ora continua tu il racconto e lei che gli si avvinghia alla mano non sia mai che lui di allontani di qualche metro. Non è quello. Non è neppure per i loro difetti, quella prepotente, quella possessiva, quella piena di sé. E' come ostentano i loro difetti, infliggendoli ai loro fidanzati davanti a tutti i loro (dei fidanzati, le femmine giovani non hanno amici, per antonomasia), senza nemmeno considerare che noi, il pubblico, potremmo giudicare, contare e dividere, ma, avendo inciabattato i loro uomini, non sono abituate ad essere contraddette e sono giunte a pensare che tutto è loro legittimato, e neppure sospettano che trattare un trentenne come un bambino ritardato di fronte agli amici forse non sta proprio bene e forse non è proprio da fare. Alla fine, i difetti diventano belli. Alla fine, ho sempre pensato che scegliamo i nostri amori per i loro difetti più che per i loro pregi: è una vita che sono rapita dai peggiori narcisisti e ben lo so. No, non è il distacco dalla realtà che la coppia rappresenta. No. È il cliché che rappresentano. Il fatto che a trent'anni sono la coppia che saranno a settanta. I riti, le zone d'ombra, i momenti d'aria. Le cose che ora non sanno, l'uno dell'altra, non le sapranno mai. Quelle aree scure che hanno deciso di lasciare inesplorate e non tanto per rispetto dell'intimità altrui, quanto per pigrizia, per non dovere prendere atto dell'esistenza e agire di conseguenza, controdedurre, capire, indagare. Dico a Pucci che io e lui siamo più fidanzati di tutti i fidanzati presenti e lui - dopo averci pensato un attimo - è concorde. Siamo più fidanzati di loro perché ci siamo indagati e conosciuti di più e siamo stati più sinceri. Lo vedi, a questo tavolo di coppie noiose, come serpeggia la finzione, l'impersonare spesso pure goffamente un ruolo. Giocare a scimmiottare i grandi. Fare quelli che hanno esperimentato una notte da soli a dormire a casa, fare quelli che lei ha cucinato le crèpes, che lui ha tagliato la legna con l'ascia. Come si fa quando è le prime volte che succede e te ne compiaci, e ancora non sai che che fa tanto principiante rivelare questi segreti. Fare quelli che si faceva da bambini quando si giocava alla mamma. Tutti composti e imbacchettati al tavolo del bar del parco di Brescia a recitare ruoli che per educazione e convenzione tutti fanno finta di non vedere che sono – appunto – recitati. Una tristezza assoluta. Il cliché. Lo stare ficcato in un ruolo per non creare ansie a nessuno. Tu fai la brava moglie, tu fai il bravo marito, tu fai la donnina spaventata dal topo che passa a tre metri di distanza sul cornicione, tu fai l'impavido che la proteggerà. Stare in una convenzione mi angoscia. È per questo che scatto come una tagliola quando mi si tratta come se io non avessi una vita. Il terrore, folle, di diventare un cliché staccato dal mondo.

1 commento:

coniglirosa ha detto...

non ti leggevo da un sacco, che bello passare un po' di tempo tra le tue robe.